Venerdì 4 febbraio abbiamo partecipato ad un interessante webinar, introdotto da Silvia Dradi, coordinatrice della Rete Interistituzionale Antiviolenza di Bergamo e Dalmine.
Intervenivano la dott.ssa Laura Cocucci, magistrata della Procura di Bergamo e la dott.ssa Paola Di Nicola, giudice penale e consulente della commissione sul femminicidio del Senato, oltre che autrice di numerosi libri tra cui “La mia parola contro la sua”.
L’incontro verteva sul tema dei pregiudizi giudiziari nei reati di violenza di genere, che spesso le donne si trovano a subire nel corso di vicende processuali che le vedono vittime.
Il problema è tutt’altro che marginale. In tempi recentissimi, il 27.05.2021, l’Italia veniva condannata dalla Corte europea dei diritti umani per non aver tutelato l’immagine, la privacy e la dignità di una giovane donna che aveva denunciato di essere stata violentata da sette uomini.
Motivo della condanna: l’aver usato i giudici italiani, nella sentenza d’appello con cui venivano assolti tutti gli imputati, un “linguaggio colpevolizzante e moraleggiante che scoraggia la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario”.
Ancora oggi, nel momento in cui decidono di rivolgersi all’Autorità Giudiziaria, le vittime di reati di genere sono costrette troppo spesso a sopportare l’indifferenza e il sospetto degli operatori giuridici, che molte volte sminuiscono o mettono in dubbio quanto da loro denunciato.
In armonia con i principi del diritto internazionale, ma anche con quelli dello stesso diritto penale italiano, è invece doveroso adottare tutte le misure necessarie a ridurre al minimo il rischio che il processo sia vissuto dalla vittima come un’esperienza traumatica, che amplifica il fenomeno della cosiddetta seconda vittimizzazione.
Sono numerosi i pregiudizi giudiziari analizzati dalle stesse magistrate relatrici che fanno sì che si guardi con diffidenza alla donna che denunci di essere stata vittima di violenza.
Per prima cosa, spesso ci si aspetta che la donna maltrattata debba tenere un contegno remissivo e inerte; se invece risponde a tono o tenta di ribellarsi attivamente ai soprusi subiti, allora si inizia a dubitare della sua condizione di vittima. Così come la donna che si ribelli, viene molte volte vista con diffidenza quella che si mostri particolarmente libera e indipendente.
In secondo luogo, nel contesto del rapporto di coppia, la violenza verbale e psicologica viene di rado classificata come maltrattamento ma viene normalmente ricondotta, banalizzando il problema, ad una mera condizione di litigiosità della coppia stessa.
Infine, si tende purtroppo a negare la violenza quando la donna non riporta segni evidenti di quanto subito sul proprio corpo. Tralasciando forme di violenza più insidiose, come quella psicologica che di per se stessa non segna il corpo in modo evidente, si ignora ancora troppo spesso un comunissimo meccanismo di autodifesa (che interessa circa il 70% delle vittime) noto con il nome di “tanatosi”.
Accade spesso, infatti, che chi subisca una violenza fisica, si paralizzi del tutto, per paura e timore di riportare, in caso di reazione, lesioni ancor più gravi. In casi del genere è evidente che le ferite fisiche saranno nulle o comunque lievi, ma in ogni caso non sintomatiche di quanto subito dalla donna.
È un dato di fatto che i procedimenti penali per reati di genere sono gli unici nei quali, in modo più o meno inconsapevole (o superficiale), in prima battuta si tende a dubitare della credibilità della vittima. Si tende piuttosto a domandarsi perché la persona stia denunciando determinati fatti e quale possa essere la sua vera finalità.
In conclusione, a dispetto dell’iconica figura di Dike (Δίκη), la dea Giustizia, il ruolo sugli scenari giudiziari della donna denunciante è spesso marginale, problematico, spesso percepito come scomodo.
Ma nonostante le difficoltà sociali ancora esistenti, l’invito rimane quello di denunciare. Sempre.
Si ricordi che, ai sensi del d.p.r. 115/2002, il patrocinio a spese dello Stato è previsto in favore delle vittime di violenza di genere a prescindere dalla loro situazione reddituale.
La Corte Costituzionale ha dichiarato, con la sentenza n. 1/2021, l’infondatezza della questione di legittimità, in relazione agli artt. 3 e 24 comma III Cost., dell’art. 76 comma IV d.p.r. 115/2002, nella parte in cui determina l’automatica ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dai reati, indicati nella norma medesima, di cui sono spesso vittime le donne (o i minori).
Tale previsione, che toglie ogni spazio di discrezionalità valutativa al giudice circa la possibilità di decidere chi possa avere accesso al gratuito patrocinio, “non è legata ad una presunzione di non abbienza” della persona offesa ma è “a presidio di altri valori costituzionalmente rilevanti”, quali il divieto di discriminazione sulla base del genere.
L’obiettivo è duplice: incoraggiare a denunciare e fare in modo che la vittima abbia l’assistenza di un professionista nel corso dell’intero procedimento penale, anche al fine di evitare i fenomeni di vittimizzazione secondaria.
Scritto da dott.ssa Elisa Bettoni e avv. Luisa Morelli