Segnaliamo ai nostri lettori l’importante decisione con la quale la Corte costituzionale, lo scorso 15 aprile, ha riconosciuto l’illegittimità costituzionale del divieto di concedere la liberazione condizionale agli ergastolani condannati per reati di mafia che non collaborano con la Giustizia, pur rinviando la decisione sulla questione a maggio 2022. Il rinvio è stato giustificato dal difficoltoso inserimento di una tale decisione nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata; inoltre, la Corte ha espressamente invitato il legislatore a predisporre una riforma organica, che tenga conto sia delle peculiari caratteristiche dei reati che vengono in gioco e delle relative regole penitenziarie, sia del valore della collaborazione con la Giustizia per questo tipo di reati.
La decisione, o per meglio dire il monito, della Corte si inserisce nella lunga vicenda del cd. “ergastolo ostativo”. L’ergastolo ostativo è quel particolare trattamento penitenziario, disciplinato dall’art. 4 ord. pen., riservato a chi è stato condannato per reati di mafia, terrorismo ed eversione e non collabori con la Giustizia. La sua genesi storica è da ricollegarsi ai gravissimi fatti di mafia degli Anni ’90: infatti, la norma è stata introdotta all’indomani della strage di Capaci del 1992 ed ha costituito uno dei capisaldi della lotta alla criminalità organizzata di tipo mafioso del nostro ordinamento. Questo regime penitenziario prevede l’esclusione, per i condannati che non collaborino con la giustizia, da tutti i benefici penitenziari previsti dalla legge: dalla liberazione anticipata (che scorpora 45 giorni ogni semestre di pena scontata, quando il detenuto partecipa alla rieducazione), dai permessi premio (che consentono al condannato che dà prova di buona condotta di coltivare fuori dal carcere i propri interessi affettivi e sociali), dal lavoro all’esterno (cui il detenuto può essere ammesso dopo dieci anni di pena scontata nell’istituto penitenziario, dalla semilibertà (che consente di trascorrere parte del giorno all’esterno, per attività di reinserimento sociale, dopo aver scontato almeno vent’anni di pena), dalla liberazione condizionale (concedibile al detentuto che abbia scontato almeno 26 anni di pena e abbia dato prova di sicuro ravvedimento). La scelta di non collaborare viene assunta quale fondamento di una presunzione assoluta di pericolosità sociale del reo; questa pericolosità conduce quindi all’esclusione dai citati benefici.
Il tema dell’ergastolo ostativo è sempre stato oggetto di ampie discussioni, in particolare perché in tensione con il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, sancito dall’art. 27 comma 3 Cost. Infatti, la norma dell’ordinamento penitenziario era già stata oggetto di rimessione al Giudice delle leggi nel 2003 e nel 2013: tuttavia, non era stata censurata in quelle occasioni poiché la Consulta aveva sempre ritenuto che il condannato fosse libero di esercitare una scelta – quella di collaborare o non collaborare – e, dunque, secondo la Corte costituzionale non esisteva alcun automatismo.
Nel 2019, due pronunce hanno segnato un “cambio di rotta”: la prima è quella della Corte di Strasburgo nel caso Viola contro Italia, in cui la Corte europea ha stabilito che la pena deve sempre mirare alla rieducazione del reo e che impedire ad un condannato il reinserimento nella società lede il principio di dignità umana. Più nel dettaglio, i giudici sovranazionali hanno censurato proprio la presunzione assoluta di pericolosità in caso di mancata collaborazione, perché la mancata collaborazione può non dipendere dalla persistenza dei legami con la criminalità, ma ad esempio da timori di ritorsioni su di sé o sui propri cari. Di conseguenza, la normativa italiana è stata ritenuta in contrasto con l’art. 3 CEDU. L’altra pronuncia significativa è stata la sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l’illegittimità proprio dell’art. 4 ord. pen. nella misura in cui non permetteva l’accesso ai permessi premio anche nei casi in cui vi fossero elementi idonei ad escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o il pericolo del loro ripristino.
Si inserisce quindi in questa tendenza la pronuncia dello scorso 15 aprile, da salutare con favore per la sensibilità più squisitamente costituzionale sul tema della pena perpetua: infatti, in un ambito così delicato per la vita di una persona, il faro costante deve essere quello fornito dai principi costituzionali. Anche il “rinvio” al legislatore può essere visto in un’ottica positiva: una disciplina puntuale ed organica coniata dal Parlamento sarebbe la soluzione migliore per garantire sia la libertà individuale di ogni cittadino, sia le esigenze, tutt’altro che di poco conto, di tutela della collettività nei confronti del fenomeno mafioso. Restiamo in attesa delle prossime mosse del Parlamento, con l’auspicio che non debba intervenire nel merito la Corte costituzionale tra un anno.
Durante la cerimonia di intitolazione della Casa circondariale di Bergamo al cappellano Don Fausto Resmini, la Guardasigilli così ha commentato la pronuncia della Consulta: “Per tutti, il carcere deve avere finestre aperte su un futuro, deve essere un tempo volto a un futuro di reinserimento sociale, come esige la Costituzione. Ma le modalità debbono diversificarsi, debbono tenere in considerazione le specificità di ogni situazione”.
Scritto da dott. Matteo Archetti